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L’imperatore Federico II di Svevia a Carpino
Sarebbe stato questo il titolo - sensazionale - di un avvenimento che, magari, passò del tutto inosservato in quel laborioso e ridente borgo dell'entroterra garganico. E invece fu proprio così: Federico II passò e soggiornò (e sicuramente non fu l'unica volta), tra una guerra e l'altra e da un maniero all'altro, proprio a Carpino nel cui territorio si dedicava alla caccia (sua grande passione, anche per tradizione di famiglia) e dove – in questo episodio che qui viene presentato - festeggiò addirittura il suo 40° compleanno che ricorreva il giorno di Santo Stefano (26 Dicembre, stessa data di un altro grande postero personaggio della storia, se pur discusso specialmente nel moderno mondo occidentale, Mao Tse Tung), quindi nel pieno delle festività natalizie. Questo lo si rileva dal libro: “Il Puer Apuliae – Rielaborazioni romanzate delle gesta guerresche, politiche, amorose e tragiche di Federico II di Svevia (1194-1250)", di N.Popolizio, per le Edizioni Laterza-Bari 1974. Nella citazione, riportata integralmente, viene scomodato persino il biblico “Ecclesiaste”, mentre si chiarisce, una volta per tutte (?) la derivazione etimologica del nome “Carpino”: qui vi troviamo scritto, infatti, che il suo nome deriva “...dalle selve di càrpini circostanti...” e non già – dubbiamente - “dalla presenza di capri o caprioli...” , come si legge in altri testi. Ed ecco la citazione del “Puer Apuliae”, che, com'è noto, è uno dei più conosciuti sostantivi con cui veniva definito il Personaggio Federico II:
""Nasce una cittaduzza (e nascerà dell'altro): Carpino. Parafrasando l'Ecclesiaste, diremo che una va e l'altra viene, mentre il malizioso difetto dell'Aquila resta in perpetuo. Ecco un episodio che stigmatizza una festività nazionale. Ieri si festeggiava il Signore Celeste, oggi si glorifica il Signore della Terra: infatti è il 26 Dicembre, giorno del 40° genetliaco di Sua Maestà l'Imperatore. Federico (forse per purificarsi dall'insincero incontro avuto con Gregorio IX a Rieti, presente anche il piccolo Re titolare di Gerusalemme, Corrado), s'è goduto il compleanno con una faticata venatoria nelle foreste attorno a Carpino, una borgata affacciata sul Lago di Varano. La Contrada, che piglia il nome dalle circostanti selve di càrpini, è cara a Federico perché nel 1229 i contadini del luogo accolsero con simpatia, ristorandoli, i soldati di un suo esercito sbandati dalla improvvisa e negativa risoluzione di una battaglia. A Carpino c'è un Castello ed una rustica Chiesetta vecchia di cent'anni; nel Maniero l'Imperatore bandisce un concorso: premierà con ricco dono il cacciatore che porterà la preda più vistosa. Prima di avviarsi, i concorrenti libano vino bollente insaporito di spezie: il Castellano profonde le proprie sostanze a gloria del Puer Apuliae e gli presenta, principalmente, la propria figliuola, bella come ninfa mitologica, e, pare, arrendevole più di una pantera affiatata. Alle galanterie segue un eloquente duello di sguardi allusivi, supplicanti, consenzienti...Cosicché quando tutti partono ad ammazzar bestiole, il Vincitore è già designato, in quanto la preda più splendida (sospirando il biblico distico “...ho desiderato d'essere all'ombra tua e mi ci son posta...e il tuo frutto sarà dolce al mio palato...”) casca tra le braccia del biondo Monarca in men che non si dica. A sera la metamorfosi. Nel Palazzo del Magister Bartolomeo c'è stato un ricevimento: file di sudditi devoti, sorrisi, frasi cortesi, giuochi, danze, cenone. Poi la quiete, centellinata con gli intimi, infine la riflessione. La mano del Puer Apuliae scivola con lentezza sulla fronte umida. Benché sia Dicembre e l'aria fuori gelida, nello stanzone il caldo è piacevole. A nome dei più vicini al Sovrano, Berardo rinnova gli Auguri per il compimento delle quaranta primavere. “Metà esistenza, dice Federico, consumata quasi senza avere visto il pieno esaurimento delle speranze vagheggiate sin dall'età infantile.” Appoggia il dorso allo schienale della seggiola, abbassa le palpebre, leva il viso alle ombre tremolanti sul soffitto e riprende con voce bassa e piena di malinconia: “Riflettere. E' l'esercizio che può rigenerare la mente, anche se gli si accompagnano l'inesorabile tristezza e l'angosciante senso della perenne nullità di tutto quello che è. Ciò è pessimismo, ma il pessimismo riesce spesso a ridimensionare entro i suoi precisi ambiti l'esistenza. Perché viviamo il nostro tempo quasi prigionieri d'un sistema prestabilito? Passano i giorni e gli anni, ne assorbiamo la lietezza e il dispiacere, assecondiamo i disegni dell'intimo e ne forgiamo altri per l'esaudimento dei quali ci distruggiamo in un'attesa trepida e dolorosa. Cosa aspettiamo? Perché non è diversa la vita? Perché l'Universo assomiglia a uno schema ossessivamente monotono, che nel suo esplicare altro non fa che ripresentare per l'eternità la medesima nefasta consolazione?” Berardo fissa con insistenza l'Imperatore, quasi volesse vedergli il cuore, quindi parla: “Cercate Colui che ha fatto le stelle; Colui che muta le tenebre della morte in aurora...Non è difficile, Sire.” Federico riapre gli occhi, dà uno sguardo ai presenti (oltre il Vescovo e me: Giovanni da Procida, Michele Scoto e Pier delle Vigne) ed esclama: “Agere et pati fortia; così commenterebbe il nostro amico d'infanzia: forza nell'azione e nella sofferenza; inconsolabile tumulto. Non esiste alternativa? Bisogna proprio subire questo assurdo imperativo che pur facendo della nostra vita e del nostro animo una dicotomia oscillante tra sublimazione e oppressione, indica ai più estremi aneliti dello spirito l'assioma irrimediabile: nulla di diverso sotto il sole?” “Se un re si pone domande simili, intervengo, cosa dovrebbe chiedersi quell'anonima schiera di viventi per la quale il quesito è a priori inammissibile? Voi, Maestà, potete opporre alle acute iterazioni delle ansie dell'animo una volontà regolatrice di quelle conseguenze desiderate dall'intelletto o dal sentimento; ma per i molti per i quali importano solo l'oggi e il domani, estremamente pratici, null'altro conta che il principio: a ciascun giorno il suo affanno e il suo pane.” “E' anche nel Vangelo questa verità, Sire”, incalza Berardo, che s'alza e sembra proseguire, interrotto però da Federico, che volgendosi a tutti chiede: “Prescindendo dalle consolazioni dogmatiche e dalle labirintiche speculazioni nelle quali religione e filosofia blandiscono i furori dello spirito, in che consiste alla fin fine la vita?” I presenti si guardano l'un l'altro. Il Presule barese, rivolto verso di me, atteggia il viso nell'espressione di chi è tenuto a indovinare il contenuto di una cassa chiusa; lo scozzese si liscia il naso fissando il vuoto; il Capuano si gratta la fronte e lancia occhiate attente oltre la finestra; il Medico picchia aritmicamente con le dita sul lungo tavolo della mensa, mentre il suo labbro inferiore è impegnato a catturare quello superiore. Entrano le Odalische, con brocche e vassoi. Alcune di loro (dalle scollature abissali), ancheggiando non meno armoniosamente delle capre lisce del monte Gallad, s'inchinano allo Svevo porgendogli dei dolci; l'Imperatore, con gesto cortese, le invita a servir prima l'Arcivescovo, ma costui, turbatissimo, ringrazia e volge lo sguardo altrove, poiché le giovani sono reclinate in modo che par debbano perdere qualcosa dalla cima del busto. Lo “Stupor Mundi” allora accenna il gesto del comando, e le fate vanno ad accoccolarsi ai suoi piedi, mostrandogli ogni dovizia: egli sceglie un pasticcio d'orzo e, volgendosi agli astanti suggella così il giorno del quarantesimo anniversario della sua nascita: “Meglio, tante volte meglio è vedere con gli occhi, anziché errare senza speranza con l'anima; anche questo è tormento dello spirito” (e aggiunge sospirando) “e non solo dello spirito...” (ch'è una postilla non propriamente tratta dall'Ecclesiaste).""
Mimmo Delle Fave
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