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La calza
Nel dopoguerra si torna di nuovo a seminare il cotone in Capitanata. E questo a causa delle difficoltà d’importazione e trasformazione del prodotto tessile, meno costoso della lana, che tra l’altro al tempo cominciava a scarseggiare a causa della riduzione dell’ allevamento di ovini dovuta alla permanenza in guerra dei pastori.
Ad essere messi a coltura sono soprattutto gli appezzamenti di terreno più umidi come quelli prospicienti ai torrenti, le cosiddette marane. Alla fine del 1946 i Serrilli permettono al loro meccanico e caldaista di fiducia, Matteo Cella, di coltivare il prezioso vegetale su terreni di loro proprietà in Contrada “Cioccatorta”: un paio di ettari circa. Trattandosi di una pianta annuale, ai primi di settembre dell’anno successivo è già possibile raccogliere i fiori dalle capsule già mature. Per l’evento è mobilitata l’intera famiglia. Tra questi, oltre l’immancabile zia Elisa, ci sono Vincenzo e Leonardo. Quest’ultimo sta completando le Medie in quel di San Severo.
Si fa la prima raccolta anche con l’aiuto di alcuni confinanti. L'operazione consiste nel togliere i fiocchi dalle capsule per deporli in sacchi trascinati dietro fino al completo riempimento. Nel pomeriggio è già tutto finito. Il prodotto è trasportato con i carretti e depositato nei silos dei grossisti. Si ripete il medesimo lavoro ad intervallo, sino alla fine del mese, cioè fino a quando tutti i boccioli si sono aperti. Durante l’ultima raccolta, per risparmiare tempo, si prelevano anche le capsule (scorce). Quanto recuperato è riservato alla famiglia, che bada a sgranellarlo. L’operazione è guidata dalla solita zia Elisa che nei giorni successivi provvede ad affastellare la bambagia. Più in là sarà lei a filarla col fuso e, qualche volta, anche col vecchio arcolaio. Il prodotto finito, cioè il filo, servirà durante l’inverno per confezionare calzini, maglie, sciarpe e perfino utili coperte da letto.
A quei tempi, di tanto in tanto, si facevano vedere in paese le tessitrici di San Marco: prelevavano il filato e, nel giro di una settimana, ti consegnavano una ben fatta coperta lavorata al telaio. Per le lenzuola utilizzavano anche le “sfilature”, residui di vecchie e usurate maglie o d’altri indumenti.
Poiché in famiglia mancava personale femminile, la zia Elisa pensò bene di istruire alcuni nipoti. Così Vincenzo e Leonardo, dopo tantissime prove e riprove, avevano imparato a far la maglia, quella a liscio.
All’inizio, il più attivo sembra Vincenzo che riesce a realizzare il tubolare col suo celere disbrigarsi tra quattro ferri, ma si blocca al calcagno. Dopo averlo fatto e disfatto tante volte, sta per mollare definitivamente l’opera tra irripetibili imprecazioni. La zia, allora, gli dice: “Calma e sfila! Proviamo daccapo! Devi assolutamente riuscirci. Vedrai che alla fine ti sentirai contento d’aver realizzato il lavoro completo e mi ringrazierai. Così è la vita!” Il ragazzo, incoraggiato, si rimette al lavoro e, dopo un paio d’ore, riesce a realizzare il tallone del calzino nella sua forma naturale. Il resto è uno scherzo! Ed è allora che Vincenzo lascia i ferri e si butta tra le braccia della zia dicendo: “Grazie! Grazie! Vedi come sono bravo! “
In un angolo c’è Leonardo, da pochi giorni in paese per le vacanze natalizie, che sbircia e si rode, perché anche lui intende imparare quel mestiere. La zia se ne accorge e dice: “Vieni! Tu devi realizzare per tuo comodo una sciarpa, possibilmente lunga, perché ti potrà servire in Istituto. Con essa ti potrai preservare da qualsiasi raffreddore. “
Così anche il chierico salesiano impara. Nel giro di una settimana il lavoro è ultimato. Leonardo porterà con sé la sciarpa bianca per il resto della vita e come cimelio della sua creatività e in segno di affettuoso ricordo della terra natìa e dei suoi cari che, come lui, ora non sono più di questo mondo. Nell’indossarla il pensiero del Salesiano vola soprattutto a zia Elisa, la tuttofare di casa Cella.
Racconto tratto dal volume "Don Leonardo Cella /Dal Paese al mondo salesiano", e – book edito da Maritato Group, Roma, 2012, pp. 212
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