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Il dialetto è Vita.

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Il dialetto, le sue poliedriche funzioni, il rapporto con la lingua nazionale, le produzioni dialettali in Capitanata, la possibilità che il dialetto diventi materia di studio, i pregiudizi sul dialetto, hanno costituito l’oggetto di studio del convegno organizzato da Nunzia Quitadamo, commissario della Sezione Regionale di Dialettologia e Demologia della Società di Storia Patria per la Puglia in collaborazione col Comune di Manfredonia che ha avuto luogo nell’auditorium di Palazzo dei Celestini a ottobre 2011.

Tema attuale dibattuto a livello nazionale, prestandosi alle polemiche secessionistiche di chi ne ha proposto l’insegnamento nelle scuole, al fine di evidenziare le differenze, attivando di fatto nel 150.mo compleanno dell’Italia il processo contrario a quello avviato con l’unificazione che, attraverso l’italiano nelle scuole si proponeva l’obiettivo di “fare gli italiani” dopo aver “fatto l’Italia”.

Nella prima giornata - che ha visto la partecipazione di diversi rappresentanti della Società di Storia Patria, di dirigenti e docenti ma soprattutto di molti giovani liceali di Manfredonia - si sono avvicendati i saluti dell’organizzatrice, dell’assessore Paolo Cascavlla, di Cristanziano Serricchio (scomparso l’1 settembre scorso; ndr) e gli interventi di Marco Trotta e Armistizio Matteo Melillo. Questi ultimi hanno indugiato rispettivamente su “La poesia in dialetto di Michele De Padova. Un amore di seconda generazione” e su possibilità e problemi di “L’insegnamento del dialetto a scuola. È possibile? Quali problemi pone?”

E’ su alcuni spunti di riflessione emersi dall’incontro che vorrei incentrare l’attenzione, cominciando con la impossibilità di definire in modo esaustivo il termine ‘dialetto’, essendo il dialetto la lingua dei nonni, la lingua della concretezza, la lingua dei bambini di borgata e degli uomini di scarsa cultura, ma anche lingua in grado di esprimere la propria identità, i più profondi sentimenti e quindi di elevata poeticità. Il dialetto è soprattutto ‘vita’, afferma Melillo, è “necessaria capacità di esprimersi delle persone”, sbagliano perciò coloro che in base a preconcetti sogliono dire in modo perentorio: “Io non parlo in dialetto!”

Sbagliano altresì coloro che vorrebbero fissare il dialetto in un modello, una staticità che contrasta con la natura di questa lingua che è un continuo divenire nella concretezza. Sotto questo profilo non esiste il dialetto puro, ma il dialetto della persona “X” che vive in un contesto “Y”, cambiando nello stesso individuo durante la giornata, in base alle situazioni e alle emozioni. Il dialetto è lingua che cambia nel tempo: si pensi alle trasformazioni subite dall’affermazione ‘sì’ [scin, sin, sì], oppure da ‘strappato’ [scarciate, strazzate, strappate].

Il dialetto è però anche lingua che cambia nello spazio: la tendenza a confondere i suoni /nt/ con /nd/, ad esempio, in parole come ‘quando’, ‘intanto’, ‘mondo’, a ben guardare, si registra non solo nel Gargano o in Capitanata o in Puglia, ma fino ai paesi dell’Italia centrale. Il dialetto è lingua che promuove l’identità storico-culturale, sia diacronica sia sincronica, essendo i suoi termini gli effetti tangibili dei popoli che si sono avvicendati in un determinato territorio: greci, romani, longobardi, abruzzesi (durante la transumanza).

Il dialetto è forma di alta composizione letteraria - quasi iperdialetto, - se si pensa che l’intrusione di un termine, un aforisma o un’espressione dialettale arricchisce tutto il testo in lingua nazionale, evocando un mondo.
Il dialetto è anche modo inadeguato e-o incompiuto di esprimersi in italiano, per il mancato rispetto di certe norme linguistiche spesso sottolineate col rosso o col blu da quei docenti più attenti alla forma che al messaggio. Il dialetto si può insegnare nelle scuole? “No” risponde Melillo, perché “il dialetto si conosce”, “perché ognuno si costruisce da sé”. Parlare di grammatica dialettale, poi, sarebbe “pura follia”.

Se il dialetto non si può insegnare, si deve però studiare a scuola come connotazione dell’esperienza dell’alunno, come storia della comunità dei parlanti, come riflessione sui modi altri di esprimersi. Fra le strategie didattiche trovano spazio lo studio dei termini che, simili a reperti archeologici, consentono di ricostruire la storia e la propria identità. Efficace anche la realizzazione di piccoli dizionari dialettali o di un museo con l’aiuto degli anziani, seguendo il percorso che va dalla parola all’oggetto, oppure la costruzione di carte geolinguistiche - ad esempio tramite il trattamento dei suoni /nd/ e /nt/ - che consentono all’alunno di collocarsi nell’ambito comunale, provinciale, regionale o meta-regionale.

Ciò che va assolutamente evitato, raccomanda Melillo, è italianizzare a ogni costo. Non si dica perciò “ho bevuto un gino”, in luogo di “ho bevuto un gin”.

Leonarda Crisetti

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