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Un giro per la vita...indigestione di natura

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Dieci ore per 320 km, a una media di 45 km orari veleggiando con la Porsche ibrida che per cinque ore viaggia a consumi zero.

Lascio il porto di Rodi Garganico quando il cielo torna al bello, ma mare tumultuoso ancora sconsiglia alla barca (che “scorto” da terra) di levare gli ormeggi. E inizia l’avventura di Un Giro per la Vita sul Gargano, un’autentica scoperta, che avviene quasi sempre in quota fiancheggiando a sinistra il mare e a destra i 400 ettari della Foresta Umbra: dal latino ombrosa. Il paesaggio è fitto di vegetazione finché si supera Pugnochiuso scendendo a livello del mare. Prima però c’è il grande abbraccio di Peschici, che improvviso sbuca tra il verde della foresta e l’azzurro del mare; come un’enorme apparizione bianchissima fatta di case di ogni forma e dimensione (un po’ troppo grandi negli ultimi anni, mi dirà poi un abitante) a picco su un Adriatico dai colori intensi che non riconosco, abituato come sono a tinte più nordiche.

La curiosità mi chiama ad arrampicare a piedi vie che mi sembrano impossibili da risalire e mi confondo coi primi turisti incontrati nel tour. Tutto intorno, senza frenesia, corre la vita paesana: le anziane si raccontano l’ultimo funerale, i bambini giocano a palla nella piazzetta, i nonni stanno seduti al bar e gli altri fanno su e giù per le ripidissime rampe. Io che cerco il castello normanno del Mille, per vedere le segrete e il museo della tortura, del castello che è il punto più a nord della Puglia, trovo invece solo insegne di ristoranti, vie e negozi. Eppure quando salgo sulla terrazzetta del belvedere dove gli innamorati legano i lucchetti (Federico Moccia ha colpito anche qua) senza saperlo sono proprio sopra il castello. Chiuso fuori stagione, tanta fatica e tante sferzate di vento, ma meritava. Prossima tappa Vieste, digradante sul mare, dove la sabbia conquista le strade più vicine. In cima al paese saccheggiato nel 1239 dai Veneziani, si staglia il castello svevo. Appena fuori c’è Pizzomunno, monolite alto 25 metri, simbolo della città e leggenda di una coppia di amanti. Poi l’arco naturale Architiello e molte torri di avvistamento del Cinquecento: le costruivano sulla costa per guardarsi tre a tre, pronte a lanciare segnali di fumo di giorno e di fuoco la notte, all’arrivo dei Saraceni

“Che uccidevano i maschi e portavano via le femmine”

mi spiegano.

La litoranea prosegue alta con blocchi di arenaria sulla strada; quelli caduti in mare disegnano pittoreschi isolotti verdi. E’ un trionfo della natura, di cui faccio una piacevole indigestione. E dopo Mattinata arrivo a Manfredonia. Se esiste è grazie a Manfredi re di Sicilia che nel 1256 passò di qua durante una battuta di caccia: vide l’antica Sipontum rasa al suolo dal terremoto di due anni prima e decise di ricostruirla 2 km più a nord, sempre a livello del mare. E’ la prova che l’arte del riciclo non è invenzione delle municipalizzate: 700 muratori in 8 anni costruirono città e castello usando le pietre recuperate e il legname giunto dalla Jugoslavia.

Il maniero angioino dai 5 torrioni merita una visita anche per la suggestiva mostra delle stele daunie, pagine di storia scritte da questo popolo che nell’VIII secolo a.C. voltò le spalle ai Balcani per il Gargano. Lascio il bel centro cittadino lastricato di bianco per deviare nell’entroterra, richiamato dal mistero dell’Abbazia di San Leonardo, XII secolo, stile romanico pugliese. Il pasto del leone sul portale non lascia troppo spazio all’immaginazione: era la fine che si voleva per gli infedeli. Qui i crociati feriti in Terrasanta venivano curati in un ospizio e pregavano coi pellegrini diretti al santuario di San Michele Arcangelo alle pendici del Gargano. Da un foro nella volta centrale il 21 giugno a mezzogiorno un raggio di sole entra in chiesa nel mezzo tra le colonne d’ingresso.

Arrivo a Margherita di Savoia, paese dedicato alla moglie di re Umberto I. Fin dall’antichità era la “banca” delle Puglie, con i suoi 4.500 ettari di saline che sono le più grandi d’Europa. Producono 6 milioni di quintali di sale all’anno, cioè l’80% del consumo italiano. Di sale ce n’è talmente tanto che lo prelevano col caterpillar e quello che avanza lo tengono a stagionare anche 6 anni. Bellissimo il rosso creato nell’acqua salata da un’alga che trattiene i raggi solari: alga ora studiata dall’Università di Bari per possibili sviluppi energetici.

A Barletta visito il Colosso (statua in bronzo di 4,50 metri del V secolo, portata da Ravenna dall’imperatore Federico II di Svevia) e la cantina della disfida, dove Ettore Fieramosca nel 1503 sfidò i francesi che avevano accusato gli italiani di vigliaccheria: 13 cavalieri di 6 regioni vinsero i 13 d’Oltralpe. A proposito di battaglie, a pochi km vado alla piana di Canne dove il 2 agosto 216 a.C. 86.000 Romani furono sbaragliati da 50.000 libici di Annibale. Una collina con museo e resti di un’antica città stratificata, veglia sull’enorme cimitero.

Sul mare c’è Trani, “la bomboniera di Puglia” con la splendida cattedrale sul mare in pietra bianca locale come tutto il bellissimo centro storico, strade comprese; e il bel castello svevo, che incredibilmente fino al 1975 fu un carcere (vi passò anche Gramsci). Ad una delle due torri marinare nel 1240 Federico II fece impiccare Pietro Tiepolo figlio del doge di Venezia: un avvertimento per i Serenissimi che qui non disdegnavano di compiere razzie.

Bari la visito in un tour by night, tra le luminarie per la festa di San Nicola, nelle piazzette e nei vicoli fortemente evocativi di tradizioni mai tradite.

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