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Dalla terra rossa ai monti della Calabria e del Gargano: i lampascioni

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Se chiedete ad un pugliese o ad un lucano se conosce i lampascioni, vi si aprirà un mondo.

Il termine “lampascione” deriva dal latino tardo “lampadione”, mentre il suo nome scientifico “Leopoldia comosa” è un binomio dedicato, per il primo termine, a Leopoldo II granduca di Toscana; il secondo, invece, deriva anch’esso dal latino, in particolare dalla parola “comosus” che significa “chiomato” in un chiaro riferimento al fiore. In Italia assume anche altri nomi come “cipolla canina”, “cipollaccio” o “giacinto dal pennacchio”.

Il lampascione, diffuso nelle regioni mediterranee, era conosciuto già da Egizi, Greci e Romani. Nel I secolo d.C., infatti, il medico greco Galeno lo descrisse come un ottimo diuretico e depurativo e dopo di lui anche Plinio e Teofrasto avrebbero attribuito ai lampascioni simili proprietà.  Presso i Romani, il lampascione era utilizzato anche come potente afrodisiaco e si diceva che esaltasse il desiderio e le capacità amorose. Non mancava mai, infatti, sulle tavole dei banchetti nuziali.

La nostra pianta è un bulbo, lontano parente dell’aglio, ma dall’aspetto più simile alla cipolla e si trova in estate e in autunno a diversi centimetro sottoterra. La sua raccolta va effettuata con grande maestria poiché aderisce molto bene al terreno e la parte esterna del bulbo va sostanzialmente sbriciolata in modo da poter prendere solo quella interna. Non per niente, la saggezza popolare pugliese sancisce che “p’acchja u cambasciole ada scava affunne”.

Il loro sapore è molto caratteristico, intenso, dal retrogusto dolce, ma con punte decisamente amarognole. Il lampascione è un alimento ricco di acqua e di fibre solubili. Contiene solo 30 calorie ogni 100 grammi ed è anche ricco di vitamine e di sali minerali. I lampascioni sono anche un alimento importante per la circolazione; essi, infatti, aiutano a prevenire la formazione di trombi e ad abbassare la pressione arteriosa. Inoltre pare che stimolino la secrezione biliare e, grazie alle proprietà antiputride, “puliscano” l’intestino.

Come affermato in precedenza, il lampascione è tipico di tutte le terre dell’arco jonico, passando per la Basilicata, fino al Salento, ma è diffusissimo anche sul Gargano. A San Severo di Puglia è stata fondata anche l’Accademia del lampascione, un’istituzione che punta alla valorizzazione di questo bulbo, sconosciuto ai più fuori dall’Italia meridionale.

In Salento, invece, ogni primo venerdì di marzo la Madonna Addolorata di Acaya diventa la “Madonna dei Lampascioni” e in una splendida sinergia popolare convivono negli stessi giorni il sacro delle celebrazioni religiose ed il profano della sagra.

Prima di prepararlo, il lampascione viene ripulito di ogni traccia di terra e radici e viene, poi, tenuto un’ora in acqua, attendendo che il bulbo perda il suo liquido più amaro. I contadini della Murgia si tramandano da secoli la tradizione che vuole che i lampascioni, appena raccolti, vadano cotti sotto la cenere. Dopodiché è possibile cucinarli in padella, in frittata o (come vuole la ricetta tradizionale) al forno con patate ed agnello. Prima di fare ciò, i bulbi vanno incisi con numerosi tagli perpendicolari fino a formare una stella in modo da farli aprire durante la cottura e renderli così più malleabili. Per quanto riguarda la preparazione sott’olio, invece, (anch’essa molto diffusa) i lampascioni vanno incisi con una semplice croce e poi bolliti in acqua ed aceto in parti uguali con l’aggiunta di due pugni di sale grosso per 5 litri d’acqua. Vengono quindi raffreddati e posti in vasetti con olio extravergine d’oliva con origano, timo e peperoncino.

Si tratta di un alimento fondamentale per le regioni meridionali. Un alimento che può nascere dalla terra rossa e arsa delle zone costiere o da quella grassa delle zone dell’entroterra, ma che possiede in ogni caso tutto l’aroma e l’intensità di chi nasce dalle acque del Mediterraneo.

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