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Un pesce da Stupor Mundi
La storia di Federico, certo, ma anche quella degli uomini di mare del Gargano, delle loro fatiche, tradizioni, festività, risiedono nel mistero di questa specie che, impossibile a capirsi per la scienza, forse non lo è così tanto per i pescatori
di Antonio Caso
Un’avventura la vita dell’anguilla. Questo pesce, infatti, partendo dalle docili acque dove è cresciuto va a riprodursi nel mar dei Sargassi dove le femmine, dopo un’estenuante traversata, a mille metri di profondità depongono le uova. E una volta nate senza che ancora alcuno studio sia riuscito a spiegarlo, le larve del ceppo americano si separano da quello europeo per raggiungere, spinte dalla corrente, i luoghi dei loro antenati. L’etimologia della parola “anguilla” deriva dall’identica parola latina, diminutivo di “anguis”, termine che a sua volta si rifà al greco “echis”, vipera. “Capitone”, invece, usato per indicare la femmina in alcune regioni, deriva dal latino “capito” probabilmente declinato all’accusativo (“capitonem”), ovvero “colui che ha una grossa testa”. Diversi sono stati i ruoli assunti nel corso della storia da questo animale. Gli Egizi lo avevano elevato al rango di divinità tanto che pare allevassero esemplari in appositi vivai dove venivano nutriti con formaggi ed interiora di animali e poi decorati con gioielli. In età greca, Ateneo la definisce “figlia di Giove”, mentre a Roma, Plinio credeva che l’animale si riproducesse nelle viscere della terra. Gli Ebrei si astengono tuttora dal mangiarla per ragioni religiose. Il medico Malatesta Fiordiano è autore di una singolare Operetta della natura et qualità di tutti i pesci, stampata postuma nel 1576: sorta di manuale enciclopedico in ottava rima delle infinite creature Posta l'anguilla nella schiera, freudianamente significativa, dei pesci "longhi, rotondi e lubrìci", il Fiordiano le eleva questo non mirabile distico: "La flessuosa anguilla ch'altri molto / a ritenerla in man sfugiendo vieta": dove si insiste sullo scontato e un po' razzistico tasto della viscidità, che, con la disumana vitalità, domina l'immaginario di questo pesce dalla carne altrimenti sublime. Un secolo prima il Platina - stabilito che le anguille sopravvivono fuor d'acqua "sei giorni se soffia la tramontana" e un po' meno se tira lo scirocco - accreditava la fama che le più longeve fra le inestirpabili bestiacce potessero festeggiare le ottanta primavere. Un'autonomia di sei giorni all'asciutto è garantita anche dal napoletano Marcantonio Severino, che nel suo De piscibus in sicco viventibus (1655) - dove si sostiene altresì che i pesci fossili fossero pesci di terra - giura sulla generazione spontanea delle anguille, nel gravido ventre delle paludi. Una medesima origine dal fango le apparenterebbe dunque a noi, bisnipoti di Adamo. Alla nostra rozza ripartizione fra anguille e capitoni si contrappone il virtuosismo tassonomico d'un tempo, quando si distingueva fra anguille bambine - gli scavezzi - e quelle adolescenti - i buratelli -, che mutano la pelle da fulva in nera; fra le anguille in senso stretto e i miglioramenti (o miramenti), dai cinque chili in su: e mirabili, in effetti, dovevano essere i re delle anguille che furono acquistati il 1° febbraio 1627 per arricchire la mensa del cardinale di Savoia, di passaggio per Rimini: pescati non nel Lago di Loch Ness, ma in quello di Garda, erano - riferisce lo stupefatto cronista - "grossi come la gamba d'un huomo". Servivano "per far zelate", cioè per essere cucinati in gelatina.
Il medico Giovan Francesco Bonaveri, autore del libro Della città di Comacchio (1761), ci ha conservato qualcuna delle ricette allora in uso in quelle desolate valli. Il “bruetto” d'anguille (anguille in brodetto) figura in due versioni, con o senza spezie. La prima ricetta, piuttosto spartana, prescrive rocchi d'anguilla cotti in acqua di valle, onde non rinunciare neanche a un briciolo dell'afrore della fanghiglia, con cavoli e verze; la variante ricca richiede, in più, un cucchiaio di spezie (garofano, cannella, zenzero, zafferano): “L'anguilla allo spiedo, privata della pelle e smembrata in pezzi lunghi un dito, s'infilza nello spiedo e si arrostisce senz'altra aggiunta. Tagliata per traverso e larga tre dita, l'anguilla in graticola va cotta a fuoco vivo con poco sale; è chiamata familiarmente bragioletta. Se si dispone di buratelli, occorre prima batterli di santa ragione per evitare che si pieghino al fuoco come sanlorenzi ribelli”. Conclude Bonaveri: "Aspersi con sugo di limone o di arancio e mangiati con mostarda, sono squisitissimi". I piatti non si discostano gran che da quelli odierni. Un anonimo ricettario reggiano del XVIII secolo pubblicato con la prefazione di Emilio Faccioli propone un'Anguilla in fricassea raccomandabilissima: "Scorzata l'anguilla, s'affetti e si cuocia sopra la gratella con olio e sale; dopo fateci una salsa con capperi, acciughe, olio, vino bianco, funghi, il tutto tritato, e si disfaccia sopra al fuoco". All'anguilla e alla sua carne morbida, grassa e succulenta si è sempre fatta grazia, in effetti, di elaborazioni culinarie troppo lambiccate e invadenti. In una lettera a Pellegrino Artusi del gennaio 1898 Olindo Guerrini manifesta il suo vigoroso dissenso circa l'opportunità di ungere d'olio le anguille prima di arrostirle: "un'eresia da cui, secondo me, solo il papa dovrebbe poter assolvere". Nelle righe successive Guerrini squaderna il proprio armamentario bibliografico in tema di anguille: da Apicio all'Anonimo pubblicato da Morpurgo, da Rosselli a Scappi al Panunto, fino a Vincenzo Corrado e a Leonardi, nessuno (o quasi) dei principali ricettari antichi manca all'appello. Completa il quadro qualche scelto riferimento letterario: Berni, La Fontaine e l'inevitabile Dante, con una dotta chiosa sulle famose anguille di Bolsena (Purg., XXIV, 20-24).
Quale effetto abbia fatto ad Artusi questa salva di mortaretti, non è dato sapere. È immaginabile che non lo abbia impressionato più di tanto. Nella stessa lettera Guerrini contesta la gerarchia dei sensi e delle arti, e conclude che "una discussione sul cucinar l'anguilla vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice". In varie zone d’Italia (delta del Po’, Comacchio e nelle lagune del Veneto) l’anguilla viene allevata in acque chiuse dette “valli”. Non dobbiamo dimenticare mai che l’anguilla è una specie in serio pericolo d’estinzione tanto da essere registrato come “in pericolo critico” dalla Lista Rossa IUCN, lo stadio subito precedente l’estinzione. L’anguilla non è tra i pesci più sensibili all’inquinamento e il pericolo che corre questa specie è dato dall’eccessiva pesca. In Puglia ricche di anguille sono le acque antistanti Brindisi, ma anche quelle del Mar Piccolo di Taranto, i Laghi Alimini e quasi tutti i bacini delle ex zone paludose della regione. Lo specchio d’acqua più fecondo, però, è quelli dei laghi di Lesina e di Varano coi loro 112 chilometri quadrati. Pare addirittura che in tale contesto le anguille fossero state causa di contenziosi tra alcune comunità di monaci, quelli di Monte Cassino e quelli delle tremiti. Pare che anche a Brindisi nei canali Delta e Luciana, ovvero negli attuali Fiume Grande e Fiume Piccolo sorse un contenzioso simile tra i monaci di Sant’Andrea in Insulam e la curia vescovile della città adriatica. Anche “stupor mundi”, Federico II pare amasse le anguille di Lesina. Pare, infatti, che il 28 febbraio 1240 egli scrisse alla curia di Foggia proprio per richiedere il pesce tipico del Gargano (particolarmente amato pare fosse il capitone) da preparare alla “askipeciam” (alla “scapece”) da Berardo, suo cuoco personale. Il metodo della “scapece” è usato ancora oggi in Capitanata per il pranzo del 25 dicembre e consiste nella frittura del pesce e poi nella sua marinatura con l’aceto. Dopo il loro viaggio per riprodursi narrato prima, sul Gargano i pesci imboccano il canale Acquarotta e la Foce Schiapparo per poi giungere, quindi, nella laguna di Lesina dove trovano un paesaggio perfetto per crescere grazie alle acque salmastre dove vengono pescati solo quando hanno raggiunto la taglia commerciale (tra i 20 e i 25 cm). I cosiddetti “pagghiari”, case di paglia, erano lo scenario della pesca all’anguilla che si teneva nei mesi autunnali sulle sponde della laguna in attesa che le “paranze”, le trappole fatte da un sistema di reti fisse e bertovelli, funzionassero appieno. Grazie alla tutela e all’opera di valorizzazione del Parco Nazionale del Gargano, ogni anno tra il 22 ed il 23 di dicembre si svolge una manifestazione gastronomica di degustazione delle ricette tradizionali a base di anguilla come quella coi lampascioni, con le linguine e l’antica tipica minestra di anguilla preparata con le verdure selvatiche del luogo. L’anguilla di lesina è stata anche riconosciuta come Presidio Slow Food.
Un pesce, l’anguilla, che ha sempre posseduto e continua a possedere un’aura di mistero malgrado sia autoctono di praticamente quasi tutte le coste del Mediterraneo e non solo. Appare quasi l’emblema di quel rapporto tra i pescatori e il mare che non si fa domare, ma offre. Reti, ma anche acque piene: questo è l’obiettivo che deve spingerci a valorizzare non solo l’anguilla dal punto di visto gastronomico, ma anche ambientale, parte sì della cucina tradizionale, ma anche protagonista dei nostri ecosistemi e dei nostri mari. La storia di Federico, certo, ma anche quella degli uomini di mare del Gargano, delle loro fatiche, tradizioni, festività risiedono nel mistero di questo pesce che, impossibile a capirsi per la scienza forse non lo è così tanto per i pescatori, pazienti abitanti delle coste di quel Gargano che tenacemente resiste, cerca di porre rimedio alle difficoltà del suo mare e gode, con temperanza, dei suoi frutti.
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