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Il pane dell'Ade affaccia sul Paradiso: le fave in Puglia

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Rinomate a Taranto erano, invece, le fave dei “Caggiuni” (località Pantano-Caggioni). Terreni ricchissimi d’acqua furono originariamente pressoché abbandonati (probabilmente a causa della presenza di paludi tanto che la località era chiamata Paludi di Basso) finché nel corso del Medioevo, periodo in cui pare acquisirono l’attuale denominazione, furono articolate in vigneti, ed orti persistenti fino alla prima metà del Novecento

di Antonio Caso

Da “La carne dei poveri” a “la porta dell’Ade”, dunque. Dai contadini del Gargano alla Stazione Spaziale Internazionale, dagli inferi ellenici alla Grecìa salentina. Forse pochi alimenti sono altrettanto rappresentativi della storia antica e recente della nostra terra. Una terra la cui ricchezza arrivata fino alle riviste e alle vetrine internazionali nasce dal basso, dalla paglia, dalla terra, dai legumi sulle tavole dei contadini. Riprendiamo dunque il nostro viaggio nella riscoperta dei cibi del Mediterraneo, in particolare delle fave di cui alcune varietà autoctone si trovano anche nella nostra regione, in Puglia. In particolare, i terreni calcarei e argillosi di Carpino, sul Gargano sono perfetti per la coltivazione di questi legumi.   Dalle piccole dimensioni e con una tipica fossetta nella parte inferiore, la fava di Carpino, al momento della raccolta, è verde, ma col tempo assume le tonalità del bianco sabbia. Particolarmente tenera, questo legume si produce in rotazione con il grano duro, i pomodori, i lupini e le barbabietole da zucchero e sprigiona il massimo del suo sapore cotto sul fuoco in una pignatta di terracotta. La semina avviene in autunno e non ha bisogno di particolare concime, anzi, è la fava stessa che rende il terreno più ricco di azoto.  Dopo la fruttificazione in primavera, la pianta (che resiste bene al freddo, ma mal sopporta il caldo) inizia a seccare finché nei primi mesi dell’estate, quando le piante si sono ingiallite si falciano a mano e si fanno i “manocchi”, covoni che si lasciano al sole. Si prende a creare, quindi, l’”arij”, il terreno pressato e ricoperto di paglia sul quale a luglio si andranno a sistemare i covoni per pesarli, mentre i cavalli girano intorno schiacciandoli; con degli attrezzi di legno, quindi, si separano le fave dalla paglia. Gli appezzamenti sono piccoli e la produzione, da prodotto ricercato e coltivato esclusivamente con metodi tradizionali. Studi hanno confermato il fatto che il Gargano è da sempre  ritenuto uno dei territori più adatti alla produzione di fave e di legumi in genere come ceci e cicerchie, da sempre la principale fonte proteica dei contadini della zona.
Sul finire dell’800, le fave sarebbero state sostituite, sulle tavole degli agricoltori, dalle patate, ma la produzione di fave era ancora notevole e lo sarà fino agli anni ’60 del Novecento. La meccanizzazione dell’agricoltura con la scelta di privilegiare le varietà più comode per l’industria tralasciando, però, un patrimonio di sapori e di biodiversità incalcolabile aveva quasi fatto scomparire la fava di Carpino tanto che erano rimasti a coltivarle solo due agricoltori: Antonio Cannarozzi e Nicola Ortore in circa 4 ettari. Poi, la rinascita. Riscoperte e apprezzate, ora la coltivazione si sviluppa su circa 10 ettari di terreno con una produzione annuale di 300 quintali. Da anni è presidio Slow Food. Una grande svolta poi, è avvenuta poco tempo fa col decollo di Samantha Cristoforetti che assieme ad altri legumi come la lenticchia di Ustica ed il cece nero della Murgia carsica ha deciso di portare nel cosmo anche la fava di Carpino, una scelta dell’Argotec di Torino determinata dalle  caratteristiche organolettiche e nutrizionali del legume. L’astronauta italiana, inoltre, appassionata di sana alimentazione aveva già assaggiato le fave di Carpino nel corso della sua permanenza in Capitanata. Nel corso del 2014 il raccolto fu preso letteralmente d’assalto e, come spiegato da Maria Antonietta Di Viesti, presidente dell’associazione “Fava di Carpino”, la missione spaziale aveva sollecitato il fecondo interesse dei più giovani. Veniamo ora, però, ad un’altra varietà di fave autoctona della Puglia e coltivata nel  comune di Zollino (Tzuḍḍinu in griko) in piena Grecìa salentina. Dall’aspetto schiacciato e leggermente più grandi rispetto a quelle industriali ha ottime proprietà culinarie conservandosi praticamente integra alla cottura. L’Istituto di Genetica Vegetale del CNR di Bari ha confermato le caratteristiche uniche di questa varietà salentina assieme, purtroppo, alle preoccupazioni per il destino di una coltura sempre più minacciata dalla progressiva riduzione delle superfici. Le fave di Zollino sono un prodotto destinato al consumo perlopiù familiare e vengono coltivate con tecniche ancora tradizionali tramandate di padre in figlio.
L’accurata vista del contadino seleziona le fave migliori tra quelle dell’annata precedente da pianate a novembre per poi raccoglierle intorno alla prima metà di maggio. Dopodiché  avviene la battitura delle piante in moderni spiazzi aziendali, ma tuttora in alcune realtà particolarmente legate alla cultura rurale della Grecìa questo procedimento avviene nelle vecchie aie. In dialetto viene detta “cuccìa” e rappresenta un ingrediente fondamentale per alcuni piatti tipici come “fave a cecamariti” o “fave e foje”. Rinomate a Taranto erano, invece, le fave dei “Caggiuni” (località Pantano-Caggioni). Terreni ricchissimi d’acqua furono originariamente pressoché abbandonati (probabilmente a causa della presenza di paludi tanto che la località era chiamata Paludi di Basso) finché nel corso del Medioevo, periodo in cui pare acquisirono l’attuale denominazione, furono articolate in vigneti, ed orti persistenti fino alla prima metà del Novecento. Da “La carne dei poveri” a “la porta dell’Ade”, dunque. Dai contadini del Gargano alla Stazione Spaziale Internazionale, dagli inferi ellenici alla Grecìa salentina. Forse pochi alimenti sono altrettanto rappresentativi della storia antica e recente della nostra terra. Una terra la cui ricchezza arrivata fino alle riviste e alle vetrine internazionali nasce dal basso, dalla paglia, dalla terra, dai legumi sulle tavole dei contadini. E parliamo di quella stessa terra che sempre più ha da riscoprirsi e nel frattempo riempirsi di nuova vita e di nuove e idee ed in questo caso di quella porta dell’inferno che, a dire il vero, qui, si spalanca su piccoli angoli di paradiso.

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