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Il pane dell'Ade: le fave

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Anche lo stelo della pianta, l’unico privo di nodi, era anch’esso, secondo i pitagorici, uno strumento di comunicazione tra il mondo degli uomini e quello dei morti e, secondo una curiosa leggenda, pare addirittura che Pitagora stesso, in fuga dai seguaci di Cilone di Crotone preferì il rischio di farsi raggiungere ed uccidere (cosa che poi avvenne) piuttosto che rifugiarsi presso un campo di fave! (...)
di Antonio Caso
Oltre all’etimologia del termine latino (che come detto sopra deriva dal concetto stesso di “mangiare”), in Italia possiamo riscontrare questo aspetto in alcuni detti popolari. In Puglia, rinomatissimo è “No' mm'sckèm' li skòrz' k'i fèf'” ovvero “non mischiamo le scorze con le fave” e in Sardegna “Gesù Cristu dona sa fai a chini no dda podit arroi”, ovvero “Gesù dà le fave a chi non può masticarle”, trasposizione del “chi ha il pane non ha i denti” ed entrambi rendono molto bene l’idea di quanto questo legume -non per niente spesso definito “la carne dei poveri”- venisse consumato giornalmente. La fava è un legume probabilmente originario dell’Africa settentrionale. Sono stati ritrovati resti sia in villaggi neolitici che in tombe egiziani del 2400 a.C., ma il legume è coltivato anche in Europa fin da tempi antichissimi e la sua storia appare un vero e proprio mosaico di riti alquanto sorprendenti. La parola deriva dal latino faba la cui etimologia si può far risalire al verbo greco phago, “mangiare” il che è abbastanza emblematico della diffusione del cibo. In greco antico la fava era detta kyamos, lo stesso termine che sta ad indicare un’elezione come più avanti avremo modo di approfondire. I Greci attribuivano alle fave diversi valori simbolici.Secondo una leggenda tramandata da Pausania (“Guida della Grecia”, VIII, 15), ad esempio, le fave erano gli unici legumi che Demetra aveva escluso tra i legumi donati ai Fenati una volta giunta in città e pare che la divinità le avesse proibite anche ai sacerdoti di Eleusi per una motivazione che, lo stesso autore, riferisce essere segreta. Secondo Aristofane, erano il cibo preferito da Eracle, mentre per Pitagora e i suoi adepti questi legumi erano essi stessi la porta dell’Ade poiché la macchia nera dei loro fiori candidi rappresentava la lettera “theta” con la quale iniziava la parola Thanatos, la morte. Anche lo stelo della pianta, l’unico privo di nodi, era anch’esso, secondo i pitagorici, uno strumento di comunicazione tra il mondo degli uomini e quello dei morti e, secondo una curiosa leggenda, pare addirittura che Pitagora stesso, in fuga dai seguaci di Cilone di Crotone preferì il rischio di farsi raggiungere ed uccidere (cosa che poi avvenne) piuttosto che rifugiarsi presso un campo di fave! Porfirio ci tramanda (Vita di Pitagora, 44) che la fava fosse persino il primo essere vivente nato, insieme con l’uomo dalla prima putrefazione ed è lo stesso autore, in un trattato di estrema attualità “Sull'astinenza dalle carni degli animali” (IV, 19), a raccontarci che le fave potevano fare da veicolo per le anime dei morti per permettere loro di prendere possesso di un essere umano. Questa proprietà attribuita al legume potrebbe essere sicuramente uno degli indizi per spiegarci la sua presenza nei riti funebri in Grecia come a Roma e finanche in Egitto.
Inoltre, in un’iscrizione di VI secolo a.C. rinvenuta sull’isola di Rodi si consigliava ai fedeli di astenersi dai cibi afrodisiaci e dalle fave per mantenersi in uno stato di purezza. Infine, ricollegandoci alla sfera semantica del termine greco, ricordiamo che le fave venivano usate in età arcaica per interrogare gli dei attraverso un sorteggio; una pratica che poi verrà traslata in ambito politico in età classica durante la quale i legumi erano usati per le votazioni politiche della boulé, l’assemblea. La pratica di utilizzare le fave per votare continuò anche nel Medioevo finanche nella Toscana ottocentesca dove, a questo scopo, le si dividevano in nere e bianche, una pratica testimoniata anche dall’espressione idiomatica “mettere alle fave”, ovvero, mettere a votazione. Anche in età romana la fava evocava diverse simbologie. Sempre secondo Plinio  (XVIII, 119) la fava era l’unico tra i cereali che, rosicchiato, prendeva nuova vita con la luna crescente. La menzione di cereale ci riporta ad un’epoca precedente a quella granaria (tanto che è l’unico legume non donato da Demetra) in cui sembra quasi che fosse usato come suo sostituto forse proprio a causa delle grandi capacità nutritive del legume. Sempre secondo Plinio (XVIII, 10) avrebbe dato addirittura il nome alla gens Fabia ed anche il mitico fondatore della città di Cures, Fabidio, rivelava un legame con un arcaica sacralità della fava. Nelle Calendae fabriae, letteralmente “le Calende delle fave” che venivano festeggiate il primo giorno di giugno, il legume era protagonista di un rito in onore della ninfa Carna, protettrice degli organi vitali dell’uomo ed in suo onore si offrivano alle divinità farinate di fave e pare che mangiarle in quell’occasione proteggesse dai dolori delle viscere. Le fave, peraltro, riprendendo la tradizione ellenica sopracitata, erano anche per i Romani il cibo preferito dai defunti tanto che le si gettavano nelle tombe nell’idea che potessero dare loro energie negli inferi e si consumavano nel silicernium, il pasto delle occasioni funebri. Un’eco di questa usanza potrebbe verosimilmente essere quello delle cosiddette “fave dei morti”, i dolci a base di pasta di mandorle tipici della Giornata dei defunti. Fave, infatti, venivano consumate in ambiente romano anche il 21 di febbraio in occasione dei Feralia, nella giornata conclusiva delle Parentalia in onore dei parenti defunti. Sempre secondo Plinio il Vecchio, la fava, inoltre, intorpidiva i sensi e provocava visioni e questo filone emerge anche in altre fonti greche e romane circa i sogni particolarmente agitati fatti dopo una cena a base di fave, realtà oniriche ritenute collegate ai presagi e alla comunicazione con le divinità. L’aspetto mistico delle fave, però, poteva avere anche risvolti positivi come nelle feste romane dedicate a Flora, protettrice della natura che germoglia, durante le quali come invito alla prosperità venivano gettate sulla folla.
Anche Apicio nel “De re coquinaria” ne racconta gli usi in cucina. Nel corso del Medioevo ebbe notevole fortuna principalmente per la sua funzione squisitamente alimentare, ma nel Rinascimento le qualità afrodisiache del legume furono citate da diversi autori. È così nella commedia Clizia di Machiavelli, ad esempio, quando il vecchio Nicomaco prima del rapporto con una giovane schiava, sceglie di cenare con una mistura di “fave e spezierie” Platina scriveva che le fave “gonfiano il ventre e stimolano la lussuria”; studi recenti hanno effettivamente confermato questa proprietà a causa dello sviluppo della dopamina dato dai principi attivi di questo legume. Con la scoperta dell'America iniziò il declino delle fave a favore del nuovo protagonista dei legumi: il fagiolo. Ciò che emerge da questa carrellata è una valenza ambivalente di un legume che sembra avere un aspetto notturno, ricco di riti e credenze misteriche ed uno diurno soprattutto in epoca arcaica e medievale di grande utilizzo sulle tavole. Oltre all’etimologia del termine latino (che come detto sopra deriva dal concetto stesso di “mangiare”), in Italia possiamo riscontrare questo aspetto in alcuni detti popolari. In Puglia, rinomatissimo è “No' mm'sckèm' li skòrz' k'i fèf'” ovvero “non mischiamo le scorze con le fave” e in Sardegna “Gesù Cristu dona sa fai a chini no dda podit arroi”, ovvero “Gesù dà le fave a chi non può masticarle”, trasposizione del “chi ha il pane non ha i denti” ed entrambi rendono molto bene l’idea di quanto questo legume -non per niente spesso definito “la carne dei poveri”- venisse consumato giornalmente.  Tra le proprietà delle fave fresche, infatti, c’è anche il grande apporto proteico oltre all’importante contenuta di acqua, di fibre, di vitamina B1 e di ferro ed il basso contenuto di grassi. Nel prossimo articolo vedremo, quindi, le varietà di fave tipiche della nostra terra, la Puglia.  

 

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